Il soggetto. E l’organizzazione

Confesso che diventa sempre più difficile. Soprattutto per chi, come me, non facendolo di mestiere, si ritrova per varie ragioni a recensire soltanto libri che gli sono piaciuti. Che ha trovato belli. Interessanti. Degni per l’appunto di un articolo che li analizza in modo critico (come da definizione del termine “recensione” del Vocabolario De Mauro Paravia). Si rischia di finire vittima dell’autocensura. Della ricerca a tutti i costi di limiti e difetti da mostrare come garanzia di obiettività. Della categorica necessità di non esagerare con l’entusiasmo, con i commenti positivi.
Per una volta ancora no. Si farebbe un torto troppo grande al libro. E a chi lo ha scritto. Della produttività è infatti non solo un libro colto. Agile. Utile. Mai banale. Ma è anche di quei volumi che hanno la straordinaria qualità di dirti, darti, delle cose e di spingerti allo stesso tempo a saperne di più. Di quelli insomma che mentre li leggi ti fanno venire voglia di leggerne altri. Che ti danno piacere oltre che dati, informazioni, conoscenze.
Lo stile narrativo di Franco Farina, la sua naturale capacità di tenere assieme la dimensione pubblica del discorso e quella privata, gioca sicuramente una parte importante in questa direzione, come appare con particolare evidenza nella bella Postfazione dedicata a Bruno Trentin. Ma c’è di più. C’è la formazione culturale dell’Autore, quel suo essere una sorta di strano ircocervo un po’ sociologo, un po’ filosofo, un po’ sindacalista, come appare dal titolo che ha voluto dare al suo lavoro, dagli incipit scelti, dai primi autori citati, Hans Magnus Enzensberger e Fredrick Taylor, Luciano Gallino e Ludwig Wittgenstein. C’è soprattutto il fatto che Farina parla di cose che conosce a fondo sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista pratico, aspetto questo molto meno scontato di quanto di norma non si sia portati a credere.
Questioni di conoscenza, insomma. E di compentenze. Di sapere. E di saper fare. Che per l’appunto permettono all’Autore di condensare in poco più di 100 pagine un percorso, non solo organizzativo, che, come egli stesso esplicita a più riprese, esplora le ragioni per le quali sono le persone, con le loro conoscenze e le loro competenze, il punto di riferimento chiave per comprendere come funzionano le organizzazioni. Per individuare le strategie più adatte, a livello di sistemi territoriali così come a livello di singola unità produttiva, per migliorare la qualità del lavoro e dunque la produttività.
È questo a nostro avviso le trait d’union che attraversa e tiene assieme i quattro capitoli che, ancora una volta con una efficace contaminazione tra elementi di teoria e di analisi, esperienze e proposte,  compongono il volume.
La qualità del lavoro è la bussola che accompagna il lettore nel viaggio dall’uomo impersonale e senza qualità, rotella da sincronizzare nell’ineccepibile ingranaggio dell’industria tipico della One Best Way di Taylor fino alla soggettività del lavoro, all’importanza dei fattori istituzionali e ambientali nell’analisi delle strutture e dei processi organizzativi,  all’idea che l’impresa può essere compresa a partire dalle culture organizzative che in esse si affermano e sono prevalenti e che dunque sono i soggetti molto più delle strutture a determinare il carattere, i processi decisionali, le storie, i successi e i fallimenti delle organizzazioni.
Buona lettura.

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