Comunicare vuol dire

1. Si potrebbe cominciare ricordando che dal marzo 2000 nei documenti ufficiali dell’Unione europea la strategia di Lisbona e lo sviluppo della società dell’informazione, della comunicazione, della conoscenza sono di gran lunga gli eventi più citati; o che Google da 3 milioni e 670 mila risposte alla ricerca relativa a “information society” (767 mila se la richiesta è “Information and Communication Technology”; 38 milioni e 500 mila se l’interrogazione si riferisce a “ICT”); o ancora che in una delle storie di solitudine e di allegria che compongono il suo ultimo lavoro (La grammatica di Dio, Feltrinelli) Stefano Benni racconta la meraviglia e l’incubo di un uomo senza qualità in cerca della sua identità in un negozio di telefonini; o infine che in un saggio del 1983 Maryan S. Schall scrive che “le organizzazioni sono entità sviluppate e mantenute semplicemente attraverso i continui scambi di attività comunicativa e di interpretazioni tra i partecipanti. In altri termini, i processi comunicativi inerenti all’organizzare creano una cultura organizzativa che si rivela attraverso le sue attività comunicative […] ed è contrassegnata dai vincoli comunicativi – le regole – legati al ruolo e al contesto”.

2. In realtà gli argomenti che giustificano la scelta di discutere di “comunicazione” sono, come gli uomini dagli specchi, moltiplicabili all’infinito. E quelli appena ricordati non sono necessariamente i più geniali o i più significativi.
Il magico verso di Donne, “Nessun uomo è un’isola”, sarebbe stato di certo assai più evocativo. Così come la filosofia di Hume, l’idea che “una solitudine totale è forse il peggior castigo che ci si possa infliggere”, che “qualsiasi piacere languisce se non è gustato in compagnia, e qualsiasi dolore diventa più crudele e intollerabile”. O la consapevolezza che in questa materia la questione relativa alla selezione e alla completezza delle fonti è di grande rilevanza per almeno tre diverse ragioni: perché l’informazione non è solo un prodotto di consumo ma anche, soprattutto, un bene pubblico; perché nella fase attuale della modernità il potere di informare si interseca saldamente, più che in ogni altro periodo, con il potere di formare; perché una società nella quale non ci fosse la possibilità di proporre e di disporre di visioni e punti di vista alternativi, non potrebbe essere a giusta ragione definita pluralista.
Nei cieli dell’informazione e della comunicazione le cose sono insomma così tante che si corre davvero il rischio di cadere nella tautologia e dunque più che soffermarci ancora sul “perché”, proveremo a formulare qualche considerazione sul “come”, intorno cioè alle scelte e alle modalità che hanno orientato questo lavoro. La cornice, i tre movimenti e le due parole chiave che seguono sono per l’appunto l’esito di tale tentativo.

3. La cornice è quella data dal titolo, Comunicare vuol dire, che tradisce per così dire l’intenzione di raccontare più cose, da più versanti e prospettive, senza perdere di vista le trait d’union, il filo rosso che connette le diverse parti del racconto.
I tre movimenti si riferiscono alle interviste (di Cinzia Massa a Fulvio Fammoni e a George Siemens), alle storie (di Luca De Biase, Raffaele Fiengo, Piergiovanni Mometto, Nicoletta Rocchi e Rosario Strazzullo), al commento alla normativa europea ed italiana in materia di sistemi radiotelevisivi (di Antonio Lieto) e permetteranno al lettore di familiarizzare con idee, esperienze, fatti ed opinioni che in vario modo e per diverse ragioni rappresentano aspetti rilevanti della discussione intorno allo stato e al futuro dell’informazione, della comunicazione, della conoscenza.
Le due parole chiave sono cambiamento e partecipazione. Che naturalmente non esauriscono la molteplicità di concetti, idee guida, sollecitazioni, notizie che il lettore incontrerà nel corso della lettura e che però di tale molteplicità rappresentano il possibile background, lo spazio nel quale ricercare una tavola di valori, di riferimenti, di interpretazioni condivise, qualcosa che assomigli a ciò che in altri contesti Rawls ha definito overlapping consensus (consenso per intersezione).

4. L’idea è in definitiva che nei nostri modi di comunicare così come nei nostri modi di apprendere la partecipazione è un aspetto – fattore costitutivo dei cambiamenti in atto. Non per immaginare un mondo, che non c’è, tutto reti e niente gerarchie. Ma per lavorare con pazienza, intelligenza, ogni giorno, per rendere questo nostro mondo almeno un po’ meno ingiusto.
È un lavoro che richiede l’impegno, ancora una volta la partecipazione, di molti. Persone che sanno dare senso a ciò che fanno. Persone consapevoli, come direbbe Calvino, della necessità di “non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire”.
Forse si può cominciare proprio così. Con l’idea che in questo controverso inizio di terzo millennio comunicare vuol dire partecipare. Partecipare vuol dire cambiare. Cambiare vuol dire rendere almeno un po’ meno evanescenti e più reali le possibilità di accesso, le opportunità, delle donne e degli uomini di ogni età, di ogni ceto sociale, di ogni parte del mondo. Un mondo capace finalmente di essere normale.
Buona lettura.

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