Consumiamo, dunque siamo

Avete mai provato a portare il vostro orologio Swatch da un rivenditore per farlo aggiustare? Nel caso intendiate farlo, sappiate che vi sentirete rispondere, in tono molto cortese, che non è possibile farlo. Che se tenuto con cura, uno Swatch non si rompe mai. Ma che una volta rotto, se ci tenete a rimanere nel club di quelli che pensano che “Time is what you make of it”, non avete altre possibilità che comprarne uno nuovo.

Affermare che siamo sempre meno interessati a chiederci “chi siamo” e che diamo sempre più valore al “cosa abbiamo” non basta più a dare conto della radicalità del mutamento in atto.
La fase nella quale il processo di induzione e di manipolazione dei bisogni era riferita sostanzialmente ai prodotti, alle merci, ai beni di consumo si avvia ad essere definitivamente alle nostre spalle. Nel mondo nel quale ci catapultiamo ogni mattina uscendo di casa, imponenti fattori culturali, economici, sociali, politici, ci spingono a pensare, e a credere, che tutto ciò che dura, ivi compresi le idee, i sentimenti, le persone, rappresenta un disvalore.
Consumiamo vite e non solo prodotti. E ciò ci dice probabilmente qualcosa di significativo circa il ruolo e l’importanza del consumo nell’attuale fase della modernità.

Attorno al consumo organizziamo le nostre vite.
Per strada come a casa, in auto come in ufficio, le nostre giornate sono scandite da spot, suggerimenti pubblicitari, consigli per gli acquisti che ci annunciano un futuro bello, giovane, ricco, di successo.

Ciò che consumiamo definisce le nostre identità.
Il valore d’uso dei beni, dei prodotti, dei servizi incide sempre meno sulla definizione delle nostre preferenze: ancora una volta, avere sempre nuovi abiti, nuovi telefonini, nuovi computer, nuovi software, nuove automobili o anche nuove barche e nuove case, è importante “a prescindere”.
Altrettanto indicativo è ciò che accade nell’ambito della sfera pubblica, laddove associare buona politica a nuova politica pare essere diventato una sorta di imperativo categorico, come dimostra la frequenza con la quale vengono dati nomi nuovi a contenitori, organizzazioni, partiti, concezioni e modi di fare politica “vecchi” con la speranza, solitamente vana, che alla novità del nome corrisponda la novità della “cosa”.

C’è una diffusa tendenza ad abusare del termine nuovo, dietro il quale si finisce spesso per nascondere cose note, brutte, ingiuste. Si finisce col perdere di vista il fatto non banale che nelle nostre vite c’è sempre spazio, nella buona come nella cattiva sorte, per cose più nuove semplicemente in quanto successive alle precedenti. E che in realtà senza la memoria, senza la capacità di riconoscere quanto permane nel variare delle circostanze e delle condizioni, non ci sarebbe ragione di parlare di cose che valgono.

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