Luigi S.

A dirvelo ve l’ho già detto, ma in fondo anche se lo ripeto male non fa, tra le cose a cui sto lavorando in questi mesi c’è un volume che vorrei intitolare “Bella Napoli” con un sottotitolo tipo “Storie di lavoro, di passioni e di rispetto”. Ad un certo punto, nelle pagine dedicate ai mie maestri, ci troverete le  righe  relative a Luigi S. che adesso potete leggere qui. Le potete leggere perché venerdì scorso Luigi è morto. Perché  la sua mancanza è assai dolorosa. Perché io non sopporto la retorica e lui la sopportava ancora meno di me. Perché queste righe le ho scritto pensando che lui a inizio 2011, quando come ogni volta gli avrei portato il libro, le avrebbe lette, e  se solo avessi esagerato con i toni non avrebbe avuta alcuna esitazione a dirmi l’equivalente di “Vicié, guarda che io sono vivo, non c’era nessun bisogno di farmi il necrologio” (l’equivalente, perché quello che mi avrebbe detto veramente non lo posso scrivere ma lo potete immaginare). Insomma quello che vi voglio dire è che Luigi era molto, ma molto, ma molto di più di quello che sta scritto qua, che mi sono dovuto “mantenere” per non prendermi l’ennessima “cazziata”.
Lo so che state pensando che adesso che è morto potrò raccontare com’era veramente, non vi preoccupate, non mi piglio collera, l’ho pensato pure io, è normale pensarlo, anche se ne avrei fatto tanto volentieri a meno.  No no, il punto è che ho bisogno di tempo, non ce la faccio ancora a raccontarlo al passato. Quello che state per leggere è Luigi pensato al presente, e per adesso è tutto quello che vi posso regalare di quest’uomo straordinario.

Luigi S. dei quattro è il più facile e il più difficile da definire. È per me il fratello maggiore che non ho, essendo io il primogenito, è (stato) il mio maestro e il mio capo anche quando le circostanze della vita hanno voluto che a fare il capo fossi io.
Ho davanti a me vivida la scena che puntualmente si ripeteva quando andavamo assieme a trovare  i miei al paese. Ad un certo punto la discussione finiva inesorabilmente sul lavoro, con papà che si tratteneva per un tempo che a lui sembrava interminabile e a noi inutile prima della domanda fatidica: don Luigi, ma voi lo tenete a posto a mio figlio, ce li mettete i contributi, questo quando si fa vecchio la prende la pensione?, con me che a seconda del momento mi incazzavo o mi mettevo a ridere e con Luigi che rispondeva compunto “don Pasquale, innanzitutto vostro figlio non lavora con me ma con la Cgil e la Cgil è un’organizzazione seria, e poi adesso è lui il mio capo, se fosse come dite voi, me li dovrebbe mettere lui a me i contributi”. Papà? Alla parola “seria” riferita alla Cgil alzava tutte e due le mani, si alzava in piedi e profferiva un contrito “per carità” che equivaleva a un “chi si è mai permesso di metterlo in dubbio” all’ennesima potenza, insomma una specie di “ ’a faccia mia sotto ’e piere vuoste”, e alla parola “capo” riferita a me diceva “e gghià, don Luì, nun pazziate sempe, ca cheste sò cose serie”.
Insomma nella vita ci sono quelli che diventano capi, a volte con merito altre volte no, e quelli che capi ci nascono. È come la storia che racconta Bill a Beatrix Kiddo in Kill Bill, quello delle differenze tra Superman, che si sveglia la mattina ed è già un superoeroe, e Batman o Spiderman, che si svegliano la mattina e sono Bruce Wayne e Peter Parker. Ecco, Luigi si sveglia la mattina ed è già capo.
Lo è quando ti spiega perché quando stava in produzione la fabbrica la sentiva sua, che cosa intendeva dire quando nel corso delle trattative poneva il problema del troppo cascame (scarti nel processo di lavorazione delle fibre sintetiche) e al capo del personale che sosteneva che il problema del cascame è un problema dell’azienda e non del sindacato rispondeva “no, la qualità e la competitività sono problemi nostri, perché se chiude la fabbrica, la proprietà non muore certo di fame, lei va a fare il capo del personale da un’altra parte, mentre noi finiamo in mezza alla strada”.
Lo è quando – al Vice Prefetto che gli indica la stanza dove si tiene la riunione dicendogli “Signor S., in fondo al corridoio a destra, mi dispiace ma ogni tanto anche lei deve svoltare da quella parte” -,
risponde di botto “Dottò, non vi date pensiero, io arrivo là, mi giro di spalle, e svolto comunque a sinistra”.
Lo è quando ti tortura fino alla morte perché anche il sabato mattina si vada a lavorare, anche quando da tempo nella Cgil non è più la norma, spiegandoti che un pò alla volta  finisce che non si lavorerà più neanche il venerdì pomeriggio, si chiuderà la sede per Natale,  Pasqua e le feste comandate,  insomma la Cgil diventerà come un qualunque ufficio, mentre invece la  Casa dei Lavoratori deve stare sempre aperta.
Lo è soprattutto quando te lo trovi a fianco sempre, quando lo vedi felice perché hai portato a casa un buon risultato ancora di più di quando il buon risultato lo porta a casa lui, quando ti lascia la scena anche quando è lui che ha fatto la maggior parte del lavoro, quando ti spiega che il capo migliore è quello che sa far crescere i propri allievi, un  concetto questo che per sentirlo espresso in maniera altrettanto chiara, credibile, convincente, ho dovuto aspettare un bel pò di anni, fino al 2008 e alle mie chiacchierate a Tokyo, al Riken, con Piero Carninci, ma questo l’ho già raccontato in un’altra occasione.  […]

Potrebbero interessarti anche...