#lavorobenfatto a RNext

Sono le cose che più o meno ho raccontato ieri, domenica 8 Giugno, nel corso di Rnext Napoli, la Repubblica degli innovatori, con tanti amici e la regia di Riccardo Luna e Giampaolo Colletti.
Lo ripropongo qui senza l’indispensabile assillo dei 5 minuti, come spunto per una riflessione più meditata e collettiva. Le cose che abbiamo in mente di fare assieme sono belle e impegnative, e discutere ci fa solo bene. Buona lettura. E soprattutto non fatemi mancare i vostri commenti.

Ma voi l’avete letto La luna e i falò di Cesare Pavese? Se la risposta è no fatelo, se invece è si sintonizzatevi su Nuto che dice ad Anguilla che “L’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa, ma da come lo fa.
Ecco, la mia storia di innovazione comincia da qui, dal come fare le cose, dall’urgenza di farle bene, dall’idea che il cambiamento prima ancora che una questione di tecnologia sia una questione di cultura, di approccio, di modo di pensare e di fare il proprio lavoro, qualunque esso sia.
Perché se lo fai bene, qualunque lavoro ha senso.

Sei uno studente che studia e ha la testa al proprio posto, cioè sul collo? Lavoro ben fatto!
Cucini bene la pasta e fagioli? Lavoro ben fatto!
Sei un architetto e hai progettato una soluzione smart per il borgo antico in cui vivi? Lavoro ben fatto!
Fai il postino, la scienziata, il muratore, la maestra, l’ingegnere, la sarta, l’ebanista, il maker, e metti testa, mani e cuore in quello che fai? Lavoro ben fatto!

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Per quanto mi riguarda è cominciato che avevo dieci anni grazie a mio padre, operaio elettrico con la licenza di quinta elementare, che mi spiegò la distinzione tra «il lavoro preso di faccia», quello fatto con impegno, rigore, passione, e «il lavoro fatto ‘a meglio ‘a meglio», quello che invece no.
Dite che papà era un tipo strano? E allora non avete letto di Steve Jobs che mentre accarezza le assi della staccionata della casa paterna dice a Walter Isaacson che “suo padre gli aveva inculcato un concetto che gli era rimasto impresso: era importante costruire bene la parte posteriore di armadi e steccati, anche se rimaneva nascosta e nessuna la vedeva. Gli piaceva fare le cose bene. Si premurava di fare bene anche le parti che non erano visibili a nessuno».

Eccolo lì il senso, nella voglia di fare bene le cose a prescindere, nella consapevolezza che alla fine non conta quello che fai, quanti anni hai, di che colore, sesso, lingua, religione sei, quello che conta, quando fai una cosa, è farla come se in quella cosa dovessi essere il numero uno al mondo. Poi puoi arrivare pure penultimo, non importa, la prossima volta andrà meglio, ma questo riguarda il risultato non l’approccio, nell’approccio hai una sola possibilità, cercare di essere il migliore.

E’ per questo che con Alessio Strazzullo, Cinzia Massa, Gennaro Cibelli, Sabato Aliberti, Colomba Punzo e tanta altra bella gente raccontiamo l’Italia dal cuore artigiano, quella che pensa che ciò che va quasi bene non va bene, quella che considera il lavoro non solo un mezzo ma anche un valore.

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Ho detto racconto? Si, l’ho detto. E aggiungo che raccontando storie ci prendiamo cura di noi, attiviamo processi di innovazione, incrementiamo il valore sociale delle organizzazioni, delle comunità e delle reti con cui interagiamo.

E’ per questo che raccontiamo l’Italia che pensa lavoro, dunque sono, valgo, merito rispetto, considerazione, quella che con le cose che sa e le cose che fa sposta l’ago della bussola dal riconoscimento sociale della ricchezza al riconoscimento sociale del lavoro, dal valore di ciò che hai al valore di ciò che sai, e sai fare.

La nostra è l’Italia delle persone normali, un’Italia che c’è, esiste, è tanta, è fatta delle donne e degli uomini che mettono sempre una parte di sé in quello che fanno, che provano soddisfazione nel farlo bene, che ogni giorno la propria intelligenza, le proprie capacità e la propria passione creano le condizioni per dare più senso e significato alle proprie vite e dare più futuro al proprio Paese.

Ecco. Adesso che ho detto lavoro e ho detto racconto posso dire anche La notte del lavoro narrato.
E’ accaduto il 30 Aprile scorso, in ogni parte d’Italia, quando persone che spesso neanche si conoscevano e adesso se non si rivedono sono prese da crisi di astinenza si sono incontrate per leggere, narrare, cantare storie di lavoro.
E’ stato, per molti versi lo è ancora, perché per fortuna sembra non finire mai, un successo incredibile. Perché si, il lavoro unisce, perché dove c’è lavoro non c’è solo fatica ma anche intelligenza, dedizione, bellezza.
Stiamo già lavorando alla seconda edizione, l’appuntamento è per il 30 Aprile 2015, Le mille e una notte del lavoro narrato, un titolo che è tutto un programma, o se volete tutta una follia, dato che proporsi di passare dai 100 eventi di quest’anno ai 1001 del 2015 non è da persone sane.

Diciamo che però io sono un pazzo fiducioso, un pazzo che crede nelle idee e nel lavoro, e anche un pazzo fortunato, dato che continuo a incrociare tanti pazzi come me sulla mia strada.

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Finisco ricordando Bob Dylan che nel 1964 cantava The Times They Are a- Changin’ per annunciare la rivoluzione che stava arrivando.
50 anni dopo, la nostra rivoluzione si chiama innovazione, comincia dalla testa delle persone, dalla loro cultura, dall’approccio con il quale fanno le cose.
Perché senza la rivoluzione dello spazzino che si mette scuorno, prova vergogna, se non pulisce bene il suo pezzo di strada, non ce la facciamo. E non ce la facciamo senza il vigile urbano e il fabbro, l’impiegato e lo startupper che si mettono scuorno se non fanno bene il loro lavoro.
Non ce la facciamo senza l’imprenditore che investe e innova perché si mette scuorno di chiamare competitività i salari da fame e i diritti calpestati.
Non ce la facciamo senza l’Italia che investe nella bellezza e nell’intelligenza, nella tecnologia e nel futuro perché si mette scuorno di avere più della metà dei suoi giovani senza lavoro, senza casa, senza autonomia, senza opportunità.

Forza, facciamo in modo che dalla nostra bella Napoli arrivi un messaggio forte al Paese, facciamole vibrare di idee, soluzioni ed emozioni queste mura così ricche di storia e di cultura, che ci sentano tutti e tutti comprendano che noi siamo gli innovatori, siamo quelli del lavoro ben fatto, e vogliamo cambiare l’Italia.

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