Destinazione

di Giancarlo Iorio

Giancarlo IorioTornare un lunedì mattina del ‘73 a Napoli e trovare lo sciopero dei mezzi.
Da piazza Garibaldi sarei dovuto arrivare a Gradini San Liborio, dietro piazza Carità dove avevo alloggio, in una casa vecchia e fatiscente.
Le padrone, la vecchia vedova e l’anziana figlia di un odontotecnico, promosso a dentista nei loro racconti, erano così gentili da non farmi rimpiangere una sistemazione più confortevole.
I pullman sostitutivi erano quelli di linea con i sedili imbottiti e con più posti a sedere, ma con corridoi più stretti, che rendevano difficile farsi largo per scendere alla fermata giusta.
Salii sul 129 rosso, non barrato, sostitutivo, e vidi che i passeggeri erano tutti seduti.
Presi posto anch’io rasserenato che non avrei fatto tardi a lezione.
Al primo posto, vicino all’autista, si era sistemata una donna bruna, rugosa e ossuta, i capelli ricci unti di brillantina, con un rossetto vistoso che sconfinava intorno alla bocca.
Stava lamentandosi in un gramelot assolutamente impenetrabile, con voce roca e concitata. Gli occhi neri che una volta erano stati vispi e furbi fendevano il vuoto davanti a sé.
Non se ne capiva il motivo, visto che era seduta al primo posto e sarebbe potuta scendere senza problemi, il pullman era in orario e non era neppure affollato.
Forse lo sciopero in quanto tale, l’anomalìa, non così rara a Napoli, ma che si andava a sommare alle tante anomalie della sua vita, era forse il motivo delle sue rimostranze.
Seduto al terzo o quarto posto c’era un eduardo, stesso viso scavato e allungato, stessi capelli e stessi baffetti, cappotto grigio di pesante grisaglia e sciarpa di lana, sempre grigia, incrociata sul petto, che usciva due dita appena dal collo del cappotto. Guardava in silenzio serafico a destra e a sinistra, inarcando ora l’uno ora l’altro dei due sopraccigli, con una mimica del volto intensa, manifestazione di un misterioso dialogo interiore.
Ai Quattro Palazzi la signora bruna alzò di un’ottava il tono delle sue lamentazioni, che divennero più esplosive e sincopate. Era chiaramente un soliloquio, non cercava né la solidarietà né l’approvazione degli altri. Forse rispondeva alle sue voci.
Il signore che somigliava tanto a Eduardo dava infine qualche segno di intolleranza e aveva cominciato a ruotare le mani come il maestro di musica davanti a una banda quando vuole sostenere un crescendo.
Erano le otto e mezza, era uscito il sole, il traffico si stava intensificando, un’altra giornata era cominciata.
A piazza della Borsa Eduardo, senza neppure girarsi indietro, alzò la mano destra e il bigliettaio si precipitò, anzi mi sembrò quasi materializzarsi ad ascoltare le sue richieste.
“Voi mi dovete usare una grande cortesia” disse al fattorino, scandendo lentamente le parole, con un fare gentile e al tempo stesso autorevole.
“Dite!”, fece il giovane, allargando le braccia in segno di disponibilità, quasi fosse davvero Eduardo.
“ Dovete dire alla signora che lei ha sbagliato mezzo.”. Pausa. Sguardo furbo rivolto al bigliettaio.
“Lei non doveva pigliare il 129 rosso, ma il 229 rosso”.
Naturalmente non era assolutamente necessario specificare a quale signora si stesse riferendo.
A quel punto il fattorino, con i tempi e la complicità di una spalla, consumata da anni di teatro: “ E perché, il 229 dove va?”
“ A o’ manicomio!!” scandì solennemente Eduardo.
L’applauso crudele che seguì avrebbe fatto cadere il teatro.

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