Pensavo fosse un tango

di Mariagiovanna Ferrante

Mi aveva telefonato, proprio due giorni fa.
All’inizio, leggere  il suo nome sul display mi aveva turbato: erano mesi che non ci sentivamo e quella chiamata inaspettata destabilizzava il mio equilibrio, così faticosamente conquistato e comunque poco stabile.Quando ho risposto, non ha perso tempo in frasi di circostanza: mi ha invitato a cena, a casa sua. Aveva voglia di parlarmi.La nostra storia era iniziata tre anni prima: ci eravamo incontrati in una milonga– uno di quei posti dove si balla il tango- e ci eravamo riconosciuti al primo sguardo. Eh sì, perché tra principianti ci si riconosce…

Il principiante in genere fa “tappezzeria”: è ancora insicuro, ha soggezione dei “bravi” e non vorrebbe mai sentirsi esposto al ludibrio dei maghi del boleo. Si vedeva che entrambi vivevamo la stessa sindrome: i nostri occhi cadevano sui piedi dei ballerini in pista, avidi di apprendere i segreti di quella danza così affascinante ma così piena di segreti, per noi che non osavamo staccare le spalle dalle protettive pareti del locale.Quando decidemmo di concedere una pausa al nostro studio, e di guardarci intorno, ci vedemmo.Proprio allora capimmo che non ci saremmo sentiti in difficoltà, se avessimo provato a mettere in pratica quanto appreso fino a quel momento.

Quella sera ballammo il nostro primo tango insieme. Seppi che si intitolava Oblivion, noto fra i tangueri: un pezzo struggente, sensuale, sulle cui note i nostri passi, per quanto incerti, sembrarono subito guidati da una forza irresistibile.

Immediata sincronia nel respiro. Perfetto incastro di corpi. Percepii nettamente il battito del suo cuore, che sembrava appoggiato al mio.
Mani, piedi, gambe, visi. Intorno il mondo girava. Noi eravamo lì, in una terra senza nome dove contava solo la nostra presenza. Dove il tempo pulsava.
Un sogno durato tre, forse quattro minuti, che avrei voluto protrarre all’infinito.

La fine del pezzo fu per noi il risveglio, e la realtà. Una realtà in cui ora esistevano due anime e due corpi, nel cui destino era l’inizio di un cammino lungo il medesimo tratto di strada.
Dopo quel primo incontro, seguirono settimane in cui la serata in milonga era un evento: secondo un tacito appuntamento, ci trovavamo nei locali che frequentavano i nostri compagni di corso e non perdevamo nessuna occasione di contatto. E ogni volta la magia di quel primo tango si ripeteva.

L’esigenza di rivederci divenne sempre più urgente e così ci scambiammo i numeri di telefono.
Così iniziò la nostra storia.
Il solo parlare di noi, della nostra vita, rendeva più forte la sensazione che stessimo vivendo qualcosa di speciale. Ci rendeva ancora più uniti quella crescente passione per il tango, che ci incuriosiva e ci portava in giro per l’Italia e in Europa a conoscere nuovi modi di interpretare i messaggi della danza. Non avevamo nessuna ambizione. Cioè: nessuno di noi aveva la benché minima intenzione di partecipare ai campionati o di diventare insegnante di tango. Ci stavamo amando e anche in quel modo consolidavamo il nostro crescere insieme.
Anche quando facevamo l’amore, sentivamo lo stesso: il corpo era il veicolo di una danza interiore, che si manifestava in gesti istintivi, improvvisati. Un tango, anche quello.

Dopo un anno e mezzo, l’inaspettato. Il bolero.
Una relazione clandestina, con qualcuno che aveva già una sua storia, e dei figli.  Il tango cedeva il passo a qualcosa di più turbolento, di più…violento, e io mi dovetti piegare alla necessità dell’abbandono. Tornò il vuoto e tornò il silenzio, intorno a me.
Per diverso tempo, ho vissuto come se fossi in una stanza piena di ovatta, muovendomi come alla ricerca di un oggetto prezioso irrimediabilmente smarrito. Poi, lentamente, ho ripreso il mio cammino solitario e da allora la mia vita non è cambiata.
Sveglia al mattino presto, ufficio, qualche happy hour, qualche film. Nessuna relazione.

Il tango? Non più.
Almeno fino a ieri.
Quando ho bussato al campanello di casa sua, i pensieri che avevano accompagnato lo squillo del telefono erano ancora lì. Sapevo, però, che nel corso della serata avrei avuto tutte le risposte che cercavo.
È venuta ad aprire quasi subito. Era bellissima: l’abito rosso che indossava si appoggiava sui fianchi e ondeggiava ad ogni suo movimento. Mi sembrava più pallida del solito, ma non ho voluto dirle niente, pensando piuttosto che fosse stanca.
Ovviamente conosco casa sua, e l’ho seguita con sicurezza in cucina. Non aveva ancora apparecchiato la tavola, ma aveva già bevuto. Del vino rosso. “Non bere da quel bicchiere, eh? È solo mio!”, mi ha detto, con un sorriso. Le ho risposto che mai e poi mai avrei osato contraddirla.

Le ho dato una mano a disporre piatti e bicchieri, riscoprendo, nella consuetudine di quei gesti, un’intimità che credo di non aver mai dimenticato.Devo ammettere di ricordare ben poco della cena, in sé. Abbiamo mangiato delle fette di arrosto, forse di maiale, e delle patate, forse al rosmarino. E abbiamo bevuto. O meglio: io ho bevuto, perché ho riempito il mio calice almeno un paio di volte. Lei, invece, avvicinava le labbra al suo bicchiere con lentezza, come se volesse rimandare il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto riempirlo.

Mi ha raccontato la sua vita negli ultimi mesi. Lui, quello sposato, quello per cui mi aveva lasciato, era tornato dalla moglie. Anzi, non l’aveva mai lasciata. Eppure, sentiva di non odiarlo, perché era stato, per lei, un completamento. Prima che io potessi farle qualunque domanda, mi ha detto che non ero io quello incompleto, rispetto all’altro. Lo era lei. Da me aveva ricevuto il calore che aveva risvegliato il suo desiderio di amare. Un desiderio sopito da tempo, che lei aveva cercato di colmare con storie di letto prive di sostanza. Prive di amore. Ero arrivato io e l’avevo portata sul “tappeto volante”. Così amava chiamare quella sensazione di leggerezza e di benessere che solo un amore può regalare e mi diceva spesso che era bello guidare il tappeto in due, ma era altrettanto bello lasciarsi guidare, affidarsi. E lei si era affidata a me.
Ma l’altro l’aveva sconvolta, e l’aveva portata lungo le rapide di un fiume senza diga.

Impossibile frenare l’impeto della passione. I tamburi del bolero contro il bandoneòn del tango. Adesso sentiva un gran senso di vuoto, come se qualcuno, o qualcosa, avesse estirpato dalle sue budella tutto il bello di cui si era riempita negli ultimi anni.
Cosa ci facevo io lì? Aveva voglia di ballare con me.
Ha sorseggiato il suo rosso, fino a vuotare il bicchiere. Con la stessa lentezza misurata, si è alzata e ha acceso lo stereo. Si è avvicinata a me e mi ha teso la mano, facendomi alzare. Quando ci siamo trovati uno di fronte all’altra, ha chiuso gli occhi, nello stesso momento in cui partiva il “nostro” tango, Oblivion. L’ho stretta nell’abbraccio che ci era familiare, riconoscendo la morbidezza del suo corpo, il profumo dei suoi capelli, il battito del suo cuore. Era ancora lei, presente con la sua prepotente dolcezza. Non ho sentito il bisogno di virtuosismi: eravamo lì, nella nostra non-dimensione, nel nostro ritrovarci. No, non c’era nessun vuoto in lei, lo sentivo. Quello di cui aveva bisogno era ricominciare a sentire se stessa, come avevo fatto io quando se n’era andata. Quelle note…erano la nostra storia.

Avrei voluto abbandonarmi al pianto che non mi ero mai concesso, ma non era quello il momento. Quel tango ci stava dicendo che due corpi mettono in comunicazione due anime ed entrambi-lo sentivo-potevamo ricominciare a camminare. Insieme.
Dopo un paio di minuti, però, ho sentito che qualcosa in lei stava cambiando. La sentivo meno leggera, quasi affaticata. Il suo cuore ha iniziato a seguire un ritmo diverso dal solito.
Le ho chiesto cosa avesse.
“Va tutto bene, stai tranquillo”.
Ma mi ha mentito.
Sono sicuro di aver urlato il suo nome, quando il suo corpo si è abbandonato sul mio.
Signor Commissario, aveva deciso di morire tra le mie braccia.
Pensavo fosse un tango. Era il suo addio.

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