I poppisti

enakapata3Di Totonno qualche volta vi ho parlato. Alto, robusto, forzuto, simpatico, atteggiato, ignorante q.b., in un mondo in cui tutti avevano prima un “soprannome” e poi un nome e cognome – Peppe ‘a lenta, Pippone, Gennaro Topolino, don Peppe Testolina, Gigino schifo d’ommo e così via -, a lui era stato affibiato quel “tre palle” che si portava appresso con ostentato orgoglio, come a imperituro acclarato riconoscimento del fatto che quando il gioco si faceva, per così dire, duro, potente come lui non c’era nessuno.
Se fosse stato uno Jedi sarebbe stato il suo lato buono della forza. Quello che gli permetteva di parlare di politica senza capirci niente, tanto lui era rivoluzionario come Cè Gaetano. Quello che quando provavi a dirgli che era Che Guevara, gli  faceva rispondere “e che differenza c’è, conta quello che ha fatto non come si chiama”. Quello che gli aveva  permesso di coniare il termine “poppista” per definire me, Salvatore ‘o beat, Tonino Parola e tutto il resto della band.
Poppista, cioè seguace della musica pop, nella sua Weltanschauung una sorta di poveraccio che perde tempo appresso a Joan Baez, Crosby, Stills, Nash & Young e similari quando ha in casa dei come Mario Merola e Pino Mauro.
A raccontarle tutte ci vorrebbe un libro intero, vi dirò per questo solo della sera in cui  nel bar di don Peppe mi si avvicinò con fare comprensivo, mi mise una mano sulla spalla, mi disse oggi ‘e fatt l’ommo venenno cu chelli ddoje guaglione, pure se erano nu poco brutte. A proposito, ma pecché ‘e poppiste so tutte brutte? Cercai di spiegargli che non erano brutte, che si vestivano da maschio,  che non si truccavano, mi avete sentito voi?, lo stesso lui.
Lo ametto, dovevo capire e non capii, ma a quei tempi si usava. Si usava cosa? La cosa che dissi a Totonno: e poi si proprio ‘o bbuò sapé, ‘e poppiste so belle dentro.
Mi guardò con comprensione. Di più. Preoccupato. Ancora di più. Al punto da non profferire ulteriore parola. Con l’esperienza di oggi ne  avrei approfittato, avrei preso le mie due buste di latte e me ne sarei tornato a casa. Allora invece no.  E gli dissi che d’é, nun parli cchiù? Viciè – mi rispose -, io stavo parlann ‘e femmene e tu me parli ‘e trippa.
Sono passati 40 anni. Ma quando ci penso sento ancora i pugni sul flipper do ricciulillo e la risata con il risucchio di Peppe ‘a lente che a momenti rischiamo di perderlo per sempre. Sono andati avanti per un bel pò a sfottermi: Viciè, è bella dentro, ma ‘a fora nun se pò guardà. E’ la legge del chi sbaglia paga. Non è la peggiore, volendo si impara anche. Le leggi brutte, quelle brutte assai, sarebbero venute dopo. Ma di questo stasera non voglio parlare.

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