L’incantesimo del motore

di Giancarlo Iorio
Questo racconto è ambientato a Morrone del Sannio, nel Molise, in un periodo in cui la meccanizzazione cominciava ad affermarsi in agricoltura, con una certa difficoltà di adattamento, per persone, volenterose, ma del tutto digiune di tecnologia. 

Quando mio nonno aggiustava il trattore indossava un pantalone ampio, di tessuto jeans, con una pettorina mantenuta da due bretelle incrociate sul dorso e sotto una camicia di fustagno a quadroni con le maniche rimboccate.
In casa questo indumento era conosciuto come panzuork.
L’aveva portato dall’America, da Seattle per la precisione, dove era stato a lavorare come minatore.
Succedeva circa trenta giorni prima della stagione della trebbiatura, che, al mattino presto, lo si poteva vedere indaffarato, con indosso il panzuork.
Per mesi il Field Marshal gommato era stato fermo. Aggiustarlo significava semplicemente rimetterlo in moto.
Operazione complessa in un trattore della metà degli anni ‘50. L’accensione prevedeva, una serie di operazioni, tra cui ovviamente il rifornimento di nafta, che veniva prelevata da grandi fusti cilindrici di colore verde chiaro. Erano quelle le prime occasioni in cui vedevo applicata in pratica la proprietà fisica dei vasi comunicanti.
Nonno Carlo infilava nel fusto grande un tubo di gomma, avvicinava l’estremità libera del tubo al recipiente di destinazione del carburante, si chinava e aspirava col fiato la nafta, poi, precipitosamente, infilava il tubo col carburante in uscita nella tanica rettangolare di metallo da 20 litri.
Molto spesso ne assaggiava un po’, suo malgrado, oppure il carburante gli colava sulle scarpe e poi mia madre a tavola si chiedeva: “Da dove viene questa puzza di nafta?”, e si alzava in preda ai conati di vomito.
Il gommato era di un bel colore verde scuro, aveva delle ruote posteriori enormi, dal profilo a spina di pesce molto scolpito.
I soci lo chiamavano “il motore” perché era destinato ad una funzione statica cioè a far girare il meccanismo della trebbiatrice a cui veniva collegato con una lunga cinghia di trasmissione di un tessuto di corda, molto robusto. Ma, quando poteva, Peppino, con la scusa di provarlo, mi portava a fare un giro e lo faceva correre. Una volta andammo addirittura alla stazione di Ripabottoni – Sant’Elia per prelevare un pezzo di ricambio. Undici chilometri ad andare e undici a tornare.
Verso la metà del mese di giugno, i soci, Michelino, Giovanni, zio Pasquale, zio Leonardo con il figlio maggiore Peppino, e nonno, conosciuto da tutti come zì Carluccio, si davano appuntamento alle cinque del mattino.
Il Marshal andava cacciato a spinta dal garage di Pasquale.
La messa in moto doveva avvenire in strada perché c’era più spazio.
Il serbatoio veniva riempito con un paio di taniche da 20 litri, usando un imbuto di lamiera di stagno.
Poi iniziava la procedura vera e propria, durante la quale i soci parlavano solo se era davvero necessario, come si fa in chiesa.
Carluccio estraeva dalla tasca della tuta una cartina assorbente,  che aveva comprato apposta a Campobasso in confezioni da trenta e l’arrotolava come una sigaretta. La cartina era imbevuta di una sostanza pirica che la rendeva simile a una miccia.
Michelino intanto aveva svitato dal motore una chiave a T che terminava con un tubo destinato a ricevere la sigaretta.
Bisognava posizionare con cura la cartina all’estremità del tubo, accenderla, assicurarsi che avesse preso ad ardere e non si era spenta sul nascere, magari per il vento forte o perché inumidita, introdurla nel condotto che portava alla camera di scoppio e avvitare bene la chiave a T.
L’operazione successiva doveva avvenire in rapida sequenza, perché, altrimenti, finita la poca aria a disposizione, la cartina si sarebbe spenta. Infatti subito dopo aver avvitato la chiave nel motore era un muoversi rapido e convulso. Ci si doveva disporre due da una parte e uno dall’altra della massiccia manovella, che avrebbe azionato il volano. I soci già sapevano che l’operazione non si sarebbe conclusa al primo colpo, per cui non apparivano delusi che il primo tentativo produceva al massimo due o tre stu stu stu e una nuvoletta di fumo chiaro.
Si svitava la chiave a T, si toglieva la cartina usata, se ne arrotolava un’altra, si introduceva nel tubo, la si riaccendeva, si riavvitava la chiave e si faceva girare la manovella con uno sforzo sincronizzato da un energico: “Uno, due e tre…ooh”. In genere dopo il quarto tentativo senza risultato zio Pasquale sentenziava: “Coss è uocchie”.
Zio Pasquale credeva molto nel malocchio e lo tirava fuori in ogni circostanza.
La prima volta che, in quella occasione, formulò la sua ipotesi era ancora sorridente, come se stesse scherzando, infatti, gli altri non gli diedero retta, ma dopo il quinto tentativo infruttuoso zio Pasquale ripeté con assoluta convinzione e senza ridere:
” Se n’è maluocchie coss…”.
Così, mentre gli altri preparavano la sesta accensione, andò in casa per prendere quello che lui chiamava il pendolino, che gli serviva per accertare il malocchio.
Se il pendolino, cioè un pezzo di spago con un piccolo peso di metallo ad un’estremità, messo sul motore, si sarebbe messo a girare, allora era malocchio.
Naturalmente puntualmente il pendolino si metteva a girare:
“Facem’u benedice”, propose, rimettendo in tasca l’attrezzatura con la stessa cura che un maestro artigiano avrebbe usato con i ferri del mestiere.
Ma intanto si provava per la settima volta.
“Da chi u vu fa benedice, da Don Daniele?”, lo canzonava Michelino, che in un certo senso voleva dire:
“Tu vorresti andare da Don Daniele, gli vorresti dire che al trattore hanno fatto il malocchio e vorresti che quello subito ti servisse una bella benedizione, ma ti rendi conto?”, solo che Michelino non era così loquace
“U feceme benedice da Ze’ Filomè, i diengh i’ na galline”.
Ze’ Flomè incantava il malocchio. Era una vecchina buona come il pane e nell’aspetto e nei modi, non aveva nulla della fattucchiera. Normalmente, quando veniva chiamata, faceva tre croci col pollice sull’oggetto da liberare o sulla pancia della persona con la colica o sulla fronte del bambino epilettico, poi, molto presa dal ruolo, mormorava delle parole con le mani congiunte e infine si ritirava in silenzio.
Una volta, molti anni dopo, le chiesi: “Ze’ Flomè, ma tu che dici?”
E lei mi rispose in modo amorevole ma fermo:
“Solo cose di Dio, ma nun tu pozz dice, zie seie”.
Mi sono chiesto a lungo il perché del segreto. Che cosa poteva cambiare? Perchè ciò che si considera sacro conserva la sua sacralità e il suo potere solo se viene riservato a pochi iniziati, escludendo i profani?
Mio nonno era molto religioso e, anche se non aveva nulla contro la persona, non avrebbe potuto acconsentire alla pratica, considerata superstiziosa dalla religione.
Invece mio padre quando si trovava davanti alla convulsione di un bambino, dopo aver prescritto una supposta di Brolumin, se vedeva gli sguardi ansiosi e dubbiosi dei familiari, diceva: “Ho capito va bene, chiamate la collega”.
La “collega” era appunto Ze Flomè che con il suo intervento rassicurava gli astanti. Il modo di fare di mio padre non era canzonatorio, ma semplicemente rispettoso della “cultura” del luogo.
Fatto sta che zio Pasquale due o tre anni prima, siccome l’accensione del motore tardava, era andato a consultare zè Flomè.
Pare, ma non lo ammise mai, che concordò che lei sarebbe passata vicino al trattore facendo finta di niente e avrebbe pronunciato le sue giaculatorie.
Pare che al tentativo successivo il motore si accese, confermando così la sua convinzione.
Ma questa volta zio Pasquale non voleva insistere con zè Flomè. Gli altri erano contrari o per fede religiosa, come mio nonno, o per eccesso di concretezza che portava a negare tutto ciò che non si vede, come Michelino e Giovanni o per assoluta passione per la meccanica come zio Leonardo e Peppino.
Zì Carluccio ascoltava il parere di tutti, anche quando per principio non poteva essere d’accordo, mettendo in pratica la regola di Voltaire. Così aveva chiesto a zio Pasquale:
“Pasquà pecchè dice ch’è maluocchie, pur ù trettore mo ze fa u maluocchie?”
E zio Pasquale con una logica stringente aveva risposto:

“A nafta ce l’ì miss, a cartucce cel’ì piccete, a manuelle ce l’ì gerete, sette vote, u trettore nze picce, che pò esse? Sole maluocchie”.
Si erano fatte le sette e mezza e si procedeva all’ottavo tentativo, assistiti da cinque o sei spettatori in circolo tutti con le braccia conserte.
Questo tentativo si concluse con uno stu in più, ma il motore non si accese.
Pasquale si era ormai distolto dall’impegno, con disappunto degli altri soci, convinto com’era che erano entrate in gioco forze esoteriche.
Cercava, guardando intorno, una soluzione al problema, mentre considerava con sufficienza gli sforzi dei compagni.
Vide allora spuntare dalla parte del Colle delle croci, Trese, una donna di circa cinquanta anni, abbastanza alta, dai modi cortesi ma decisi, con due braccia robuste, come quelle di un uomo giovane, i capelli rossi e gli occhi verdi che la facevano assomigliare a un’irlandese. Pasquale sapeva che Trese in più occasioni aveva dimostrato di essere una “magara” ed era considerata da alcuni un’erede, da altri una concorrente di Ze’ Flomè .
Siccome questa figura era praticamente sconosciuta ai soci, almeno come maga, lui decise di avvicinarla sapendo di non destare sospetti e, prima che questa arrivasse nei pressi del trattore, le chiese se poteva fare qualcosa.
Così ze’ Trese, quando fu a dieci metri dal gommato, disse a voce alta:
“Sante Mertine!”,  una specie di generico augurio di riuscita, buono per tutte le imprese. Si usa quando chi arriva trova che si sta impastando il pane o si mettono a bollire le bottiglie di salsa di pomodoro.
I soci quasi automaticamente risposero come dovuto cioè:
“Bommenute”.
Ze Trese si avvicinò un altro poco poi chiese:
“Mo’, mettete n’ moto?”.
Mio nonno si incaricò di rispondere per tutti con buona educazione e pazienza:
“Se Die vo’”.
E Trese:
“Eh! vo’, vo’, mah, Die u benedich”.
Detto ciò la donna se ne andò con un inavvertibile cenno di intesa con Pasquale, che decise a quel punto di partecipare al nono tentativo.
Prima di cominciare tutto il rito per la nona volta zì Carluccio, che era anche presidente dell’Azione Cattolica disse:
“I dico ‘na gloria patri a San Giovanni Bosco”.
Zio Leonardo invece chiese di poter accendere lui la cartuccia. Mise molta cura nell’arrotolarla, si pose al riparo dal vento per accenderla nell’incavo della ruota grande del gommato, la posizionò lentamente nel condotto che potava alla camera di scoppio, avvitò con cura, ma abbastanza rapidamente la chiave, si sputò nelle mani e comandò il giro di manovella. Il volano girò velocemente e, agli stu stu stu iniziali, si unirono anche tre o quattro tump tump tump tump in rapidissima successione e poi tratratra.
I soci guardarono la ciminiera del motore con lo sguardo ansioso e speranzoso, come quello dei fedeli rivolti verso il comignolo della Cappella Sistina in attesa della decisione del conclave. Per un attimo tutto tacque e sembrò fallito anche il nono tentativo, ma subito dopo, con una abbondante emissione di fumo nero e con un botto che assomigliava a un’esplosione, il gommato si accese. Un applauso partì dagli spettatori. I soci trattenevano a stento un sorriso di compiacimento. Peppino salì sul trattore e abbassò l’acceleratore, poi non seppe trattenersi dal farlo partire e percorse trionfante tutta via Cristoforo Colombo.
A quel punto, però, tutti rimasero della loro convinzione.
Nonno Carlo attribuì il merito della riuscita del nono tentativo alla preghiera a San Giovanni Bosco, ch’era il Santo protettore della nostra casa, zio Leonardo, tra l’ilarità degli spettatori, cominciò a saltare dalla gioia e a gettare la coppola a terra come liberato da una forte tensione, convinto che il merito era suo per come aveva acceso la cartina e comandato la manovella, Michelino e Giovanni, agnostici, che non avevano attribuito alla breve visita di Trese nessun significato, dissero rivolti a Pasquale:
“I’ vist, quale maluocchie”.
Zio Pasquale, che si aggirava compiaciuto, con le mani in tasca, intorno al trattore finalmente acceso, li guardò compassionevolmente, scuotendo il capo e, con un sorriso superiore che nessuno colse, mormorò:
“Mah! Che ne volete capire voi. Che ne capite voi dei misteri della vita!”.

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