La Napoli che ricordo

di Sabato Aliberti

Sabato Aliberti

Sabato Aliberti

Correva l’anno 1984 avevo poco più di vent’ anni. Per 5/6 mesi, il sabato e la domenica, si andava a Napoli, destinazione:Convento dei Padri Trinitari situato nella Piazzetta Trinità degli Spagnoli, cuore dei quartieri Spagnoli, a pochi passi da via Toledo.
Poco distante, la Galleria Umberto I, il teatro S. Carlo, Palazzo Reale.
Tutti i fine settimana, la nostra auto, una Fiat 127  proveniente dal’Agro nocerino sarnese e carica di secchi di pittura, pennelli e carta vetrata, percorreva indisturbata (il sabato mattina e soprattutto la domenica le vie erano completamente deserte) la strada adiacente  la Galleria e il Teatro per svoltare poi in  di via Toledo e , dopo 100 metri in un vicoletto che portava al Convento dei Padri Trinitari.
Lo zio di un mio amico di infanzia,  responsabile del Convento e da poco ritornato dal Madacascar, dove era stato missionario per una ventina di anni, ci aveva chiesto di dare una mano ad imbiancare  le pareti del convento per renderlo più pulito e accogliente. Aveva intenzione di fittare, a prezzi bassi, le diverse stanze vuote del convento, ai ragazzi stranieri che studiavano a Napoli. Con il ricavato degli affitti voleva risistemare alcune sale del convento, seriamente danneggiate dal sisma dell’80, per farne un centro di aggregazione per i residenti.
Il convento era una magnifica struttura in cui vivevano solo 4 Padri Trinitari, con molte stanze due o tre  sale riunioni e una enorme sala da pranzo, vi era inoltre, una piccola biblioteca piena di libri antichi, anche del ‘400 che, mi ricordo, pulimmo ad uno ad uno con panni morbidi e leggermente inumiditi. Sfogliare quei libri era come entrare in un’altra dimensione temporale. La scrittura a mano, il linguaggio quasi incomprensibile dell’epoca, lo stile ecc..
Fuori, la piazzetta, era un vero e proprio parcheggio di auto per i residenti, i quali, quando arrivavamo,  si adoperavano per trovare un posto anche per la nostra auto.
Ricordo le persone che abitavano in quelle “case”, tutte molto gentili nei nostri confronti e allo stesso tempo diffidenti e guardinghi. In fondo avevamo invaso il loro spazio, le loro case con la porta aperta che dava sulla piazza. La privacy era una parola sconosciuta. Si mangiava e si dormiva nella stessa stanza mentre in una stanza a fianco vi era parcheggiato una barca o un motoscafo. La diffidenza scomparve dopo qualche mese. Ormai eravamo i “nipoti del prete”, e venivamo trattati con rispetto, anzi ogni tanto qualcuno ci diceva “nun vi preoccupat, cà nisciun vi tocca nient, ci stamm nui”.
Ogni tanto il sabato sera restavamo a dormire in convento, per continuare il lavoro il giorno dopo.
La domenica mattina venivamo svegliati sempre dalle urla di qualcuno che chiamava qualcun’altro da un balcone colorato di biancheria stesa. “Signora Amalia” si sentiva ripetere per almeno 5 o 6 volte.
Le persone che abitavano in quella piazza apprezzavano il lavoro che stavamo facendo e non mancavano di farcelo notare, sia quando le incontravamo in qualche bar, nei momenti di pausa per un caffè, che quando venivano a messa la domenica. Spesso vedevo un gruppetto di signore che si fermavano a parlare, piangendo, con il responsabile del convento, nostro “zio” , ma non vi ho mai dato importanza, in fondo era un quartiere povero e sicuramente quelle signore erano là per chiedere qualche aiuto economico. Certo non era una bella zona! Ogni 3 o 4 ore una volante della polizia faceva un giro di perlustrazione in quei vicoletti stretti, a volte “attaccata” a una piccola ape car della nettezza urbana che girava nel quartiere per raccogliere la spazzatura e che costringeva l’auto della polizia ad andare a passo d’uomo.
Qualcuno al mio paese mi aveva detto che era un quartiere pericoloso e che vi vivevano molti delinquenti alcuni dei quali appartenenti alla NCO. Personalmente non mi sono mai accorto di nulla, ne è mai successo qualcosa che mi facesse pensare ad un quartiere pericoloso. Anzi, lo trovavo bellissimo, sembrava una di quelle scene che si vedevano nel film “L’oro di S. Gennaro”, sebbene meno caotico di quello rappresentato nel film.
Una domenica Padre Orlando, così si chiamava lo zio del  mio amico, ci disse di lasciar stare le stanze di sopra e di iniziare ad imbiancare una sala riunioni di fianco alla cappella. Ci chiese se potevamo restare fino al mercoledì perchè aveva bisogno che il salone fosse pronto  in 4 o 5 giorni. La richiesta ci sorprese un pochino. Non erano più importanti le stanze da affittare? A cosa serviva il salone se  non si era neanche pensato a come organizzare un oratorio o un centro di aggregazione giovanile? Non ci ponemmo tante domande, in fondo dovevamo comunque finire di imbiancare tutto il convento!
Mancava ancora qualche mese per finire i lavori. La domenica mattina sembrava ci fosse più gente in chiesa e il gruppetti di signore che prima si fermava a parlare dietro l’altare non si vedeva più. Dopo la messa andavano nella sala riunioni, che avevamo finito di imbiancare una quindicina di giorni prima, dove restavano a parlare per qualche ora.
A settembre, dopo 5 mesi di lavoro, avevamo pulito tutto il convento in modo decoroso. Il nostro lavoro era finito. Mi dispiacque sapere di non poter più tornare il sabato e la domenica. La gente era simpatica e a volte anche divertente, non si curava tanto delle apparenze che, viste dall’esterno, facevano sembrare quell’area un quartiere degradato. Anzi sembravano felici. I vocii, le urla lanciate ai ragazzini che giocavano,  le canzoni napoletane quando si stendevano i panni, creavano un’atmosfera familiare come se vivessero tutti in una unica casa e non in un intero quartiere.
Nel mese di dicembre decidemmo di ritornare per fare visita a padre Orlando, era il periodo pre-natalizio. Non so perchè ma avevo la sensazione che le cose non erano più come qualche mese prima. Sentivamo come se fossimo spiati, controllati.
Padre Orlando ci accolse come sempre amorevolmente. Ci raccontò che era riuscito ad ottenere dei fondi dalla legge 219 per la ristrutturazione del convento, che nel salone che avevamo pitturato, aveva organizzato un Centro dove diverse donne del quartiere, e qualcuna anche da più lontano, si incontravano per discutere dei loro problemi, che le cose erano cambiate e che non potevamo più tornare a trovarlo dato che lui stesso era stato trasferito in Puglia. Ma come dopo solo due anni a Napoli? Dopo aver sistemato tutto il convento e aver ottenuto fondi per la sua ristrutturazione? Dopo aver procurato, a prezzi modici, un posto per dormire a studenti provenienti dall’Africa?
Non ci diede spiegazioni.
Qualche mese dopo lessi sui giornali che a Napoli molte mamme avevano iniziato a denunciare i propri figli tossicodipendenti e che si era costituito un gruppo di donne, nei quartieri spagnoli,  che  i  giornali definirono le “ le madri coraggio”.
Il mio amico Franco mi spiegò qualche tempo dopo che suo zio era stato trasferito perchè era in pericolo. Un uomo, una domenica , dopo la messa, era andato dietro l’altare e aveva consegnato un lungo coltello con la lama retrattile a suo Zio, dicendo che era lì per eseguire un’ordine ma che, dopo aver ascoltato la messa, non se la sentiva più. Consigliò al prete di andarsene e di fretta perché sarebbe venuto qualcun’altro. Gli consegnò l’arma con cui avrebbe dovuto eseguire l’ordine  e sparì.
Padre Orlando fu trasferito pochi giorni dopo.
La Napoli che ricordo io è quella degli anni ’80,. Non quelli della camorra e  degli omicidi. Quella dei cittadini che abitavano a Piazzetta della Trinità degli Spagnoli e che si adoperavano per trovarci un parcheggio, delle mamme che dietro l’altare della cappella confabulavano con il prete e piangevano, del richiamo domenicale alla signora Amalia. La Napoli  delle “madri coraggio”.

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